Questo articolo è stato pubblicato nel numero di Maggio di 2017 (pg. 28) della rivista “il Veses”, mensile rivolto agli abitanti della Valbelluna. Fa parte della rubrica “Ambientiamoci” curata da Michele Argenta ed Oscar Paganin, nata con l’obiettivo di rendere più vicino e comprensibile un problema complesso e globale come quello dei cambiamenti climatici.
Oggi sul piatto troviamo l’agricoltura come fonte primaria del nostro sostentamento la quale, nella sua complessità, emette direttamente circa il 12% dei gas serra generati dall’uomo. Se aggiungiamo a queste emissioni quelle prodotte dall’utilizzo di combustibili, la produzione di fertilizzanti e pesticidi, e la creazione di nuovi terreni da coltivare, la percentuale sale al 30%. La filiera agricola è quindi responsabile di circa un terzo di tutto il gas serra emesso al mondo.
Per circa 10.000 anni gli esseri umani hanno padroneggiato la gestione della produzione alimentare, ma due cose sono cambiate radicalmente negli ultimi due secoli: la metodologia di produzione e il consumo. La popolazione è aumentata e urbanizzata. I cambiamenti nella metodologia avrebbero dovuto superare i problemi affrontati dalla sovrappopolazione, ma i risultati si sono rivelati controproducenti.
Dal XIX secolo, l’utilizzo delle macchine ha facilitato il lavoro, aumentando la velocità e la produttività. Di conseguenza, la produzione è stata semplificata, riducendo i tipi di varietà prodotte e concentrandosi sulle monocolture estensive. A prima vista, questa sembrava la soluzione ideale per porre fine alla fame della popolazione, ma col tempo la monocoltura ha presentato una serie di problematiche, come l’esposizione delle piantagioni ai danni causati da insetti, funghi e batteri, oltre alla diminuzione della biodiversità e l’impoverimento del terreno. La terra povera avrà bisogno del supporto di fertilizzanti e pesticidi per combattere le sue carenze produttive. Le macchine utilizzano una complessa catena di assemblaggio e funzionano con combustibili fossili. Si tratta di un sistema completamente dipendente da macchine e risorse esterne che, oltre ad avere una grande filiera (spesso importata) sostituisce anche il lavoro umano con carburanti fossili.
Questi cambiamenti su larga scala avvenuti negli ultimi tempi nel settore alimentare hanno anche cambiato la nostra dieta. Il sistema agrario ha omologato le nostre diete, dando spazio a una piccola varietà di alimenti rispetto a quanto ci offriva l’ambiente intorno a noi. I prodotti che una volta erano speciali e consumati con parsimonia sono ora diventati la normalità. La conseguenza di tutto ciò? L’aumento dell’impronta ecologica di ciò che si trova sul nostro piatto.
Però di cibo ne esiste in abbondanza. Il problema è che, vista la dispersione geografica della catena di produzione nel pianeta, circa un terzo di ciò che è prodotto viene perso. Basterebbe scegliere prodotti che hanno una minore impronta ecologica, preferibilmente prodotti nelle vicinanze. Se riallochiamo la produzione alimentare investiremmo denaro nel lavoro locale, il che sarebbe ancora meglio potendo supportarlo utilizzando pratiche sostenibili come agricoltura biologica, sinergica, biodinamica e naturale.
Il prezzo è solitamente più alto? Sì.
Tuttavia, è importante ricordare che spesso i prezzi bassi equivalgono al lavoro e allo sfruttamento ambientale, dove risorse come la terra e l’acqua vengono sfruttate e inquinate, ma che raramente vengono considerate e risarciti.
Informiamoci sull’origine dei prodotti e su come vengono fatti. Rivalutiamo il nostro consumo di alimenti ad alta impronta ecologica. Sperimentiamo a casa, sul davanzale, in giardino a creare un orto sul quale spargere semi vecchi e di provenienza locale. Salvaguardiamo sementi antiche e locali. Sosteniamo il piccolo produttore e il piccolo commerciante della nostra città. Incoraggiamo un’economia basata sulla diversità con impatti positivi sulla nostra società.